CORONAVIRUS: CIMO-FESMED, TROPPE CRITICITA’ NEL SSN; COGLIERE OCCASIONE PER ‘RIFONDARLO’
Roma, 28 febbraio 2020 - Insufficientemente informati e con inadeguati dispositivi di protezione personale: è questa l’impietosa fotografia di come il medico ospedaliero percepisce la situazione determinatasi con l’emergenza del Coronavirus. E’ quanto emerge da una indagine-flash realizzata da CIMO-FESMED negli ospedali italiani, chiedendo ai medici di tutte le branche specialistiche quale fosse la loro percezione rispetto ad alcuni strumenti di prevenzione che le aziende devono mettere a disposizione a tutela della propria sicurezza nel proprio luogo di lavoro. La percezione del singolo medico rappresenta un essenziale elemento di valutazione perché evidenzia le difficoltà che i medici incontrano nelle strutture trovandosi in “prima linea” senza armi ma solo con le proprie competenze professionali.
L’indagine ha coinvolto 450 medici che operano nelle strutture sanitarie italiane, ha interessato specialisti di tutte le branche mediche, chirurgiche e direzionali e, in alcuni casi, più medici della medesima struttura proprio per capire la percezione vista dal singolo operatore rispetto al proprio contesto lavorativo.
Il primo quesito riguardava la dotazione dei dispositivi di protezione individuale: ebbene solo il 27,6% ha risposto che la propria struttura sanitaria ne ha a sufficienza, mentre il 20,1% ritiene che gli stessi DPI siano in dotazione solo presso i reparti a rischio. Rispetto alla implementazione di percorsi interni specifici, seconda domanda, ben il 56% dei medici ha risposto in modo negativo, o ha affermato di non esserne a conoscenza (il 30,5%). Analogo discorso, terzo interrogativo posto ai medici ospedalieri, riguarda l’esistenza di aree di isolamento per potenziali pazienti affetti da COVID-19: il 56,2% degli intervistati ha risposto di no (27,1%) o di non esserne a conoscenza (29,1%).
Sulla implementazione di specifiche misure organizzative nel Pronto Soccorso, quarta domanda, solo il 44% ha risposto in modo positivo. Infine, alla domanda sul livello di informazione esistente all’interno della struttura ospedaliera, emerge, in modo chiaro, che solo il 17,8% ha fatto formazione e ha avuto informazione, che nel 15,1% dei casi sono stati coinvolti solo i responsabili di struttura e che nel 48,3% degli intervistati ha evidenziato l’assenza di iniziative aziendali.
“Il test, che non pretendeva di avere una valenza statistica – ha commentato Guido Quici, presidente di CIMO-FESMED (aderente a CIDA) ma si prefiggeva di ‘fotografare’ come la situazione riguardante il COVID-19 fosse percepita dal personale medico. E le risposte fornite dimostrano, al netto dell’indiscutibile impegno e dei risultati di medici e sanitari sul campo, che la sanità italiana non può andare avanti in queste condizioni, che l’autonomia differenziata, di fatto già in atto, non è in grado di fronteggiare possibili emergenze sanitarie; che la stessa crea insicurezza tra gli operatori sanitari e disparità di accesso alle cure. È questa l’ultima occasione per rivedere seriamente il nostro servizio sanitario nazionale nell’ottica dell’accessibilità, uniformità e sicurezza delle cure”, ha concluso Quici.
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